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Archive for the ‘territori’ Category

Girandola che ti passa

E’ il giorno della revisione. Un gruppo di esperti stabilisce se una persona sta bene oppure no, se sta di qua o di là della soglia…il paradosso è che questo viene chiesto innanzitutto proprio a colei che, per prima, non sa bene da che parte sta. Oppure lo sa, ma la percezione del suo benessere è assai diversa da quella di noi “normali”.

Comunque il giorno è passato, il momento fatidico superato. Dall’esito dipendono molte cose, che riguardano meno lei, più me…che strano il destino, a volte il benessere può essere controproducente e meno desiderabile dell’equilibrio ritrovato. E’ un pensiero come corvo nero che passa e va subito oltre, per mia fortuna: per lei desidero sguardi accesi, passi sicuri, attività entusiaste, piuttosto che occhi spenti, passo incerto, l’apatia o la frenesia incontrollabile.

Intanto da tempo ragiono sul fatto che il momento del passaggio è forse quello in cui mi sembra di trovare con lei una maggiore intesa, di incontrare più la dolcezza e la tenerezza materne, invece della testardaggine, dell’assertività e della furia contenuta, che sono altri aspetti, ma pur sempre fondamentali del suo carattere. Adesso che da mesi è tornata veramente a casa, la osservo in modo consapevole e con indulgenza. Mi sento in pace.

Mentre penso, con leggerezza e assorta tranquillità mangio biscotti, sorseggio un tè bollente, guardo l’acero grondante di verde nuovo, leggo, accarezzo e parlo con gattogino, inizio relazioni, seleziono foto del viaggio recente…

Soddisfatta ammiro in terrazza la mia nuova girandola grigio-azzurra, dispositivo anti felino e acchiappa sorrisi.

In un giorno plumbeo come questo non è poca cosa.

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Silenzio creativo

Nel laboratorio siamo rimasti in pochi. Noi e il ronzio deciso del compressore nell’aula accanto, noi e il levare gentile, quasi morbido delle sgorbie sul legno.

C’è il profumo buono delle essenze che lavoriamo: cirmolo, tiglio, …

A tratti irrompono i colpi secchi del mazzuolo.

Tutti siamo però silenziosamente immersi nella realizzazione della nostra opera…un rumoroso silenzio creativo.

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Il paese dello zucchero

Intenta a leggere e a memorizzare di canne palustri e casoni per un improbabile progetto scolastico in cui mi sono lasciata coinvolgere, la mia  mente vaga tra ricordi e immagini di bambina nella campagna dei nonni.

I campi circondavano la casa, l’orto era uno spazio infinito di giochi e scoperte, sulla canna della bici il nonno mi portava, scomoda ma felice, lungo la stradicciola di terra, fiancheggiata dai filari di pioppi, a prendere il latte appena munto, dai vicini al di là del fosso; poi il pomeriggio nonno Nino andava a giocare a carte nel bar del paese, mentre  nonna Maria faceva la sarta e io, in mezzo a fili, stoffe e straccetti, sui gradini dell’entrata della cucina, tagliavo pazientemente tuniche e scialli per le mie bambole…Il nonno rientrava nel tardo pomeriggio, forse era già sera, con un “ricoperto” per me e uno per la nonna. Al buio e al fresco delle notti estive rincorrevo le lucciole; saltavo e alternavo i passi sui bassi paracarri della strada sotto il muro dell’argine. Ricordo nella campagna, lungo la strada che portava al paese dalla città, un casone con gli anni sempre più cadente, i rovi a ricoprirne le pareti in muratura, la pioggia a svelarne le travi del tetto di canne palustri ormai marce.

E ancora, l’odore acre della lavorazione delle barbabietole nell’aria di fine estate, le corse nel prato del campo sportivo dall’altra parte della strada, il filare di pini marittimi della via…

E’ talmente lontano tutto ciò che quasi non mi sembra vero che sia stato così, che ci sia stato un tempo in cui c’erano tutto questo, loro, c’ero io, in un’altra dimensione di vita, in un paese che ora riconosco sempre meno.  Un paese che solo una piccola casa colonica, in parte ampliata secondo la moda degli anni sessanta, casa ormai circondata da altre case, ma tenacemente conservata in possesso della famiglia, trattiene dall’indifferenza della memoria che trascorre.

E’ ora il legame con le mie radici, tra la mia infanzia e  quel paese sulle rive del Bacchiglione. Un luogo che, anche per me allora, fu “un luogo buono per vivere”.

Il tuo paese è il tuo paese: ci sei nato e te lo porti dietro se ti capita di andartene. E’ tuo perché ne hai assaporato i profumi e respirato l’aria  e sentito i rintocchi delle campane e il fischio della sirena e ti sei affacciato sulle acque del fiume una sera con la luna alta e le stelle sparse e hai seguito la processione del Voto la prima domenica di maggio con la sua pioggia di Ave Mria e qui hai incontrato gli occhi giusti e hai battezzato i figli e accompagnato la figlia all’altare e seppellito i tuoi vecchi.

Il tuo paese è il tuo paese, bello e buono e tonificante come il primo caffè della mattina. Antico e originale quanto basta. Quel poco che stiamo raccontando dice che è più interessante di quanto comunemente pensato. La prima cosa che ti colpisce è il suo sviluppo lineare, lungo le due sponde del fiume: a sinistra , il nucleo originario, definito dal profilo nobile della casa patrizia Foscarini Erizzo dalla covata di case basse, da oltre un secolo sovrastate dai murazzi e dagli argini rialzati; a destra la parte più moderna, dalla chiesa allo zuccherificio, praticamente contemporanei. Uno sviluppo parallelo e duale, un procedere asimmetrico e asincrono nel tempo. Non c’è un centro unico, il paese è spaccato in due come un melone, municipio e servizi civili di qua, chiesa e opere ecclesiastiche di là.  Spaccato in due da un fiume, comunità collegata da un ponte un tempo in legno, poi in pietra, poi in ferrro, ora in cemento armato”

da Emidio Pichelan, Pontelongo. Un luogo buono per vivere. Storia per parole e immagini di un paese sul Bacchiglione (1876-1976), Ediciclo Editore 2004

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L’apostrofo

Il mio lavoro è anche rovistare carte, scegliere libri e pagine da raccontare o leggere, raccogliere idee, lanciarle o più poeticamente, seminarle -spesso al vento, ma chissà, in qualche terreno fertile qualcuna cadrà- liberare pensieri, trovare parole che sappiano dire…

Insomma, mentre cercavo una pagina e un’idea per domani, il libro mi è caduto in mano. Mi ha letteralmente trovato lei, la pagina che ricordavo…e insieme altre, che avevo dimenticato.

Fortunatamente, a volte, anche le parole ci vengono a cercare.

“Gentile Professore, mio figlio ieri non ha potuto studiare perché l’ho portato dal dentista, e quindi le chiedo per favore di non interrogarlo oggi”.
…E’ per questo che poi i miei allievi non sanno mettere gli apostrofi…
Proprio per questa ragione i miei allievi non sanno mettere gli apostrofi: perché noi adulti abbiamo abolito le regole.
Non è esattamente che le abbiamo abolite, le abbiamo…allentate…Tutti noi adulti, non solo insegnanti, diamo le regole ma poi lasciamo correre, non interveniamo più che tanto. Non prendiamo provvedimenti. Non puniamo. Non diamo sanzioni, se non leggere e transitorie. Quindi il messaggio che passiamo è molto chiaro: nulla è mai veramente grave. Credo che lo pensiamo davvero, e che non siamo nemmeno poi così in torto: davvero un apostrofo non è così grave, non casca il mondo e non muore nessuno…Peccato che non sia vero niente…
Non so perché, a me sconvolgono soprattutto gli apostrofi. Certo, anche gli accenti e le virgole, ma con gli apostrofi, non so, io penso di avere un problema personale…
L’apostrofo è il segnale di un’assenza, di una mancanza: segna qualcosa che prima c’era e adesso non c’è più, è caduto, è morto. Ecco, l’apostrofo indica un lutto. E’ un piccolo segno, una virgoletta sospesa, che dice al mondo intero: vedete, prima qui c’era una sillaba e adesso la parola l’ha persa, è monca, ne deve fare a meno. Però conserva la memoria di quella sillaba morta, le ha fatto una specie di monumentino e attraverso quello la ricorda e la celebra per sempre. Celebrazione di una sillaba morta…Capito? E’ una cosa tragica, l’apostrofo. Noi dovremmo tutti, davanti a un apostrofo, spargere due o tre lacrime, soffiarci una volta il naso, almeno avere gli occhi rossi…
Un po’…
Io non voglio vivere in un mondo in cui metà della gente scrive un po senza apostrofo, e l’altra metà scrive un pò con l’accento.”

Da Paola Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, Guanda 2004

Questa pagina me l’ero proprio dimenticata, ma il suo posto è giusto giusto (per ironia e serietà al tempo stesso) tra i commenti di un post d’inizio anno e i pacchi di temi, rinnovati di settimana in settimana, su cui troneggia gattogino!

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Ho fatto un giro

Oggi, di mattina presto, ho fatto un giro, non so se proprio al di là del fiume… forse in un certo senso sì. Era giornata di partenze, oggi, dal Parco dei Tigli. Nelle stanze atmosfera di letti disfatti, valige da riempire, mani da stringere, sguardi da imprimere nel ricordo, parole ultime da scambiare. Non so se c’era l’allegria del ritorno a casa. Di sicuro aleggiava una pacata mestizia per l’abbandono di un luogo di rifugio per settimane, per mesi; un luogo in cui ritrovare la strada e il coraggio per riattraversare la soglia. E in quei giorni anche luogo di incontro di sofferenze diverse, o uguali, senza età.

Dopo l’ultimo saluto e l’ultimo abbraccio, un altro ancora. Non ha nome, è una figura esile esile, vestita di nero dal capo ai piedi, giovanissima, il volto diafano incappucciato, un luccicone di lacrima quando, salutando la mamma, con pudore rivolta a noi mormora “tenetevela cara…”

Ho pensato a questi incontri che avvengono al di là della soglia, da cui noi, al di qua, restiamo definitivamente esclusi. Qualcosa che appartiene solo a loro e che ha il sentore di qualcosa di grande, di speciale, di magico…

Oggi, qui, niente sole, ma…

La nebbia arriva
su zampine di gatto.

S’accuccia e guarda
la città e il porto
sulle silenziose anche
e poi se ne va via.

Carl Sandburg

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Da mesi spiavo il movimento incessante tra i rami di un ulivo, per me inaccessibile. Ma oggi ce l’ho fatta, vibravo di piacere con la preda in mio possesso. Chissà come, nel fazzoletto di terrazza che è il mio territorio, il grigio volatile è capitato alla giusta distanza dei miei artigli, e io, Gattogino, ho preso per il ciuffo il mio kairòs

“Nella camera in cui dormivano i bambini Pèricard il gatto Albert si era fatto il suo giaciglio. Salito sul piumino che teneva caldi i piedi di Jacqueline, aveva cominciato a ciancicarlo e a mordicchiare il cretonne profumato di colla e di frutta, ma poi la balia lo aveva cacciato via…I bambini riposavano tranquillamente e la balia si era assopita recitando il rosario. Il gatto, immobile, lanciava dardi sui grani della coroncina che brillavano al chiaro di luna con un occhio fisso e verde; l’altro restava chiuso…Piano piano, con estrema delicatezza, tirò fuori una zampa, poi l’altra, le allungò e le sentì fremere dall’articolazione superiore, molla d’acciaio ricoperta di morbida e calda peliccia, fino alle unghie dure e trasparenti…Era un gatto molto giovane, vissuto sempre in città, dove le notti di giugno si avvertono solo da lontano, e solo a volte se ne può respirare una folata tiepida e inebriante. Ma lì il il profumo gli saliva fino ai baffi, lo avvolgeva , lo afferrava lo penetrava, lo stordiva. Con gli occhi socchiusi, si sentiva investire da ondate di odori fortissimi e delicati, quello degli ultimi lilla con il loro leggero sentore di decomposizione, quello della linfa che scorre negli alberi e quello della terra tenebrosa e fresca, quello degli animali-uccelli, talpe,topi, quante prede!-odore muschiato di peli, di pelle, odore di sangue…
Ma il gatto adesso era saltato tra l’erba e stava immobile, in attesa. Gli occhi rotondi e dorati scintillavano nell’ombra; ci fu un fruscio di foglie smosse e lui riapparve, portando in bocca un uccellino inerte e leccando adagio il sangue che usciva dalla ferita. Beveva quel sangue caldo con delizia, strizzando le palpebre. Aveva conficcato le unghie nel cuore della bestiola, ora disserrandole, ora affondandole nelle carni tenere, negli ossicini leggeri, con un movimento lento ritmato, finché quel cuore non cessò di battere…”

da Irène Némirovsky, Suite francese, Adelphi 2004, p.105 ss


Rientrata in casa mi è venuta incontro, svolazzando, una penna grigia caudale. E’ stato il primo presentimento. Poi un’altra, e un’altra ancora, una piuma leggera, grigia con una spruzzata di giallo …”mancava l’intero”…

Il povero uccellino, dal capino ocra, qualche penna giallastra e l’occhio semichiuso, giaceva rigido con le zampine ritratte, al bordo del tappeto in corridoio e tutt’intorno un ventaglio di piume impalpabili, segno della lenta agonia. Ora dorme tra le radici del corbezzolo.

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Il grido attraversò il buio

Quante parole e luce e calore di giovinezza, oggi, primo giorno di scuola dopo tanto silenzio, aule buie, fredde e vuote delle ultime settimane. Altri ragazzi, altri pensieri, altre aspettative a cui innalzarsi.

E altri ancora per cui rivolgere una muta preghiera.

Il grido attraversò il buio
fino all’altra sponda
o nemmeno sfiorò
lo spessore della notte, né l’invocazione
né la divinità poterono fare nulla
con l’aria impenetrabile-tanto sfiorì
una vita,
tanto chi doveva sentire
non sentì.

Cesare Viviani

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Se vieni, mangiamo un buon minestrone e le polpette…”

Così sono andata, nonostante la tosse e la voce che va e viene; come al solito l’ho trovato, lui, pigro come pochi, saldamente ancorato al televisore, ai televisori, a seguire tutti gli sport  invernali possibili in questa mattina gelida di gennaio. Ma la casa è calda e piena di luce, se non fosse che si sente a tratti lo spiffero freddo di un’assenza, che dura ormai da quasi due mesi. Il minestrone è buono, le parole scambiate poche, ma queste non servono: per oggi siamo in compagnia. Per questa domenica non mangiamo soli.

Arrivare al Parco dei Tigli è per me, a volte, quasi una sorta di pellegrinaggio. Oggi che sull’argine lo sguardo spaziava su tutto quel bianco dei campi innevati, mi sono preparata ancora di più all’incontro, riposando la  mente e il cuore. Pensavo di rientrare subito a casa dopo pranzo, invece mi sono sentita chiamare a proseguire per un’altra tappa. Infatti, anche se non avevo anticipato nulla, lei mi aspettava.

E’ pomeriggio di visite, il bar è affollato. Gli sguardi e il vociare si incrociano e, per un attimo, si confondono;  di chi è lì provvisoriamente, per una visita più o  meno veloce, ma poi tornerà a casa, e di chi ha superato la “soglia”, ma faticosamente sta cercando di rientrare. Ma rientrare dove? Oggi mi è sembrato di non sentire la differenza che ci separa: la normalità dalla stranezza, la lucidità dalla follia. Era una domenica pomeriggio e stavamo tutti godendoci un tempo diverso dal solito. Sono rientrata anch’io, con il sole del tramonto alle spalle a disegnare il contorno dei colli.

Dalla casa del padre, qualche mese fa, ho sottratto una sua lettura di gioventù…chissà se già immaginava:

“Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma hanno la nostra stessa immagine (anche se non precisa), mia e tua, o lettore. Ma quello che è più misterioso domani potranno avere, guariti, la perfetta immagine, poi di nuovo tornare astratti, solo parole, soltanto delirii. Dunque è il nostro incerto equilibrio che pencola, e insuperbiamoci e insieme siamo umilissimi, che siamo soltanto uomini capaci delle opposte cose, uguali, nel corso delle generazioni, alla rosa dei venti.”

Da Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, Mondadori

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Per queste cose

Per queste cose considero  la mia gatta Cipolla.
Perché per prima cosa si guarda le zampe per vedere se sono pulite.
Per seconda cosa solleva le zampe per pulirle.
Per terza cosa si stira.
Per quarta cosa affila le zampe su un legno.
Per quinta cosa si lava.
Per sesta cosa si rotola.
Per settima cosa si spulcia.
Per ottava cosa si strofina allo stipite.
Per nona cosa guarda in su aspettando istruzioni.
Per decima cosa va a cercarsi da mangiare.
Perché neutralizza il diavolo, che è la morte, dandosi da fare con la vita.
Giovanni Raboni

Nella terrazza di giallo fogliame, mi sono dato da fare anch’io…non ho sconfitto la morte, ma la tristezza sì.

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Soglia

Ogni gatto -si sa- ha i suoi luoghi, appartiene ad essi ed essi appartengono a lui. Non va oltre. Scruta la soglia, spesso chiusa, a volte aperta, in mezzo due anime che indugiano invano sulla soglia del suo territorio. Un guizzo lo spinge a varcarla: due scalini in giù, due in su e poi, al richiamo imperioso, ancora dentro…Al gatto elegiaco sovvien 

 “Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano

logorare un po’ la propria soglia di casa

già alquanto consunta

anche loro, dopo dei tanti di prima,

e prima di quelli di dopo…leggermente “

R. M. Rilke

Quante volte ancora vederla varcare la soglia del benessere, che separa dalla follia e dalla desolazione della mente inquieta? Oh, poterla richiamare indietro nelle rassicuranti ragioni della “normalità”, come richiamare un gatto che oltrepassa il limite del suo territorio…

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